Quando nei laboratori o in generale quando mi capita di chiedere cosa significhi per le persone la performance Art o di citarmi una performance a cui hanno partecipato o visto molto spesso mi viene citata Marina Abramovich e tra tutte la sua performance The Artist is present al Moma di New York.
Chi conosce il mio lavoro sa che mi occupo di Performance come strumento di auto indagine dalla fine degli anni 90. Non ho idea da dove arrivarono le ispirazioni per le prime performance a specchio che feci. Non ne sapevo nulla di psicologia o Gestalt ne tantomeno di ricerca interiore, “meditazioni new age” o roba del genere. Proponevo certi tipi di interazioni a specchio tra le persone in modalità diverse e più sperimentavo più trovavo nuovi elementi e sfumature da approfondire e condividere.
Nel 2001 con la performance “La Stanza” iniziai ad inserire come elemento chiave l’interazione con il pubblico attraverso un incontro diretto nello sguardo tra sconosciuti e nell’invito implicito all’introspezione.
Questo è un anelito profondo che caratterizza ogni essere e non mi stupisce che in periodi diversi e in modalità diverse vari artisti abbiano proposto quindi opere simili a riguardo.
Non ho mai amato molto le opere di Marina fino a quella del Moma che mi ha ricordato così tanto il mio lavoro con “La Stanza”.
Tutti i suoi lavori precedenti nell’ambito della Body Art non mi interessavano troppo perché mi arrivava e mi lasciavano come effetto finale molta sofferenza, ribellione, ricerca di trasmutazione di energie pesanti. Intenti molto nobili ma non nelle corde di quello che era l’anelito profondo della mia ricerca.
Il mio interesse infatti negli anni è stato sempre più focalizzato sulla ricerca interiore, sull’arrivare al nucleo della consapevolezza dell’Essere, nel superare ed investigare i limiti della mia storia personale, dei confini del corpo, nella spinta ad andare sempre più dentro all’auto indagine e nell’esplorazione degli stati elevati di coscienza.
Ciò che stimo molto nel lavoro di Marina Abramovich è l’invito ad uscire dagli spazi abitudinari ed esplorare i nostri limiti in generale, gli spazi non confortevoli e non sicuri, ciò che per me è aprirsi all’inaspettato e all’apertura del cuore.
Il mio canale per questo fin dall’inizio non è stato tanto quello della violenza o della situazione scioccante o estrema ma piuttosto quello dell’accoglienza, dell’ascolto, della disponibilità a mettersi in gioco con l’altro, della semplicità, del minimalismo, dell’incontro, elementi che sono stati integrati nell’ultimo periodo anche nel lavoro stesso di Marina Abramovich.
La mia unica performance se vogliamo proprio cercarla come scioccante o estrema è stata nella vita, quando nel pieno della popolarità come giovane artista emergente ho lasciato di colpo da un giorno all’altro il mondo dell’arte contemporanea letteralmente bruciando tutto alle spalle per fare le valigie e andare totalmente dentro iniziando così il mio percorso più canonico di ricerca con guide e pratiche introspettive e meditative di vari lignaggi e tradizioni diverse.
Tornando al paragone che mi invitano spesso ad approfondire tra il mio lavoro e quello di Marina se dovessi proprio dare delle etichette quindi credo che forse nella sua espressione della performance Art ci sia qualcosa di più ‘sciamanico’ mentre nella mia declinazione qualcosa di più ‘zen’ anche se naturalmente ogni opera poi ha delle fragranze molto specifiche che esulano e contraddicono questa generalizzazione.
Lei ha spesso condiviso il suo processo e le sue sperimentazioni di transfer o terapia personale attraverso le sue performance mentre nei miei lavori mi accade di più di mettere a disposizione degli strumenti, delle chiavi universali, di condividere l’esperienza diretta e sopratutto le potenzialità di dove e quanto si può arrivare in profondità con questi strumenti.
Ciò che ci accomuna sicuramente e che apprezzo molto del suo lavoro è il pubblico nel ruolo molto importante, direi cruciale, che gioca nella performance.
”Senza il pubblico, la performance non ha alcun senso perchè, come sosteneva Duchamp, è il pubblico a completare l’opera d’arte. Nel caso della performance, direi che pubblico e performer non sono solo complementari, ma quasi inseparabili”.
E quindi la consapevolezza che l’atto performativo è in grado di operare una trasformazione profonda in chi lo produce, ma anche nel pubblico che lo osserva. Il passaggio dall’essere uno spettatote all’essere uno sperimentatore
Per me ad un certo punto è stato evidente che per poter davvero conoscere la relazione con l’altro, per poter trovare quella pace e quella libertà che resta a prescindere da tutto e da tutti, bisogna partire da sé stessi. Questo è stato Il motivo per cui ho scelto di lasciare tutto per un periodo in cui questa ricerca è stata la mia unica priorità per poterne poi riportare i frutti nella condivisione e nell’espressione artistica.
Nell’intento profondo che ciò che ho ricercato al di fuori del mondo dell’Arte possa essere sempre più proposto ed offerto dai contesti artistici tradizionali e che questi ‘due mondi’ possano sempre più confluire anche fisicamente: che si possa trovare sempre di più in una mostra lo stesso benessere di un corso di yoga e in un museo la stessa rivelazione che si può trovare in un centro di meditazione.
In questo mi sento molto vicina alle nuove proposte dell’Arte Relazionale e a molti dei nuovi lavori di Marina Abramovich testimoni del fatto che questa necessità di utilizzare l’Arte come possibilità di trasformazione personale è sempre più richiesta e necessaria.
“Come posso aiutare a risvegliare le coscienze attraverso l’arte!”
Ecco questa recente frase di Marina Abramovich riassume perfettamente anche il mio intento naturale…Grazie Marina!
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